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La bomba esplode all’alba: il Biscione si man­gia il Cavallo. Il con­si­glio d’amministrazione di Ei Towers, la con­trol­lata di Media­set che a sua volta con­trolla la rete di tra­smis­sione della società, ha appro­vato all’unanimità il lan­cio di un’offerta pub­blica di acqui­sto e scam­bio (Opas) su Rai Way, l’omologa società della tv pub­blica, in parte quo­tata, da novem­bre, in borsa.

Fioc­cano i «l’avevo detto». Per primo quello di Roberto Fico, pen­ta­stel­lato pre­si­dente della com­mis­sione di vigi­lanza Rai che si beccò un «domani mat­tina i miei legali faranno que­rela a que­sto buf­fone» da parte di Sil­vio Ber­lu­sconi per aver affer­mato che la deci­sione del governo di ven­dere le torri della Rai faceva parte del Patto del Naza­reno. Ma anche per gli ana­li­sti, che plau­dono all’iniziativa, era chiaro che l’esito «natu­rale» della pri­va­tiz­za­zione sarebbe stato pro­prio questo.

La ven­dita di una quota di mino­ranza di Rai­way era pre­vi­sta nel decreto Irpef appro­vato nel giu­gno scorso che sot­traeva 150 milioni di euro alle casse di viale Maz­zini per coprire il bonus degli 80 euro. Suc­ces­si­va­mente, il 2 set­tem­bre, il rela­tivo decreto della pre­si­denza del con­si­glio spe­ci­fi­cava «l’opportunità di man­te­nere, allo stato, in capo a Rai, a garan­zia della con­ti­nuità del ser­vi­zio ero­gato da Rai Way a Rai mede­sima, una quota di par­te­ci­pa­zione sociale nel capi­tale di Rai Way non infe­riore al 51%». Tra le con­di­zioni poste da Ei Towers per la sua Opas per man­giarsi le torri Rai, quella che « l’offerente venga a dete­nere una par­te­ci­pa­zione pari almeno al 66,67% del capi­tale sociale di Rai Way». Ma lo stesso cda di Ei Towers spiega che «l’offerente potrà rinun­ciare a una o più delle con­di­zioni di effi­ca­cia dell’offerta ovvero modi­fi­carle, in tutto o in parte». E comun­que, se il Dpcm del 2 set­tem­bre si pre­oc­cu­pava di man­te­nere la mag­gio­ranza pub­blica per garan­tire la con­ti­nuità del ser­vi­zio, la società del Biscione assi­cura che a sua volta «con­ti­nuerà a garan­tire l’accesso alle infra­strut­ture a tutti gli ope­ra­tori tv», aggiun­gendo che l’Opas ser­virà a «porre rime­dio all’attuale situa­zione di inef­fi­ciente mol­ti­pli­ca­zione infra­strut­tu­rale dovuta alla pre­senza di due grandi operatori».

Ma per­ché l’operazione si possa con­clu­dere ovvia­mente sono neces­sari alcuni pas­saggi. La Rai dovrebbe accet­tare: oggi il cda comin­cerà a affron­tare la que­stione (per ora si fa sapere che si tratta di un’opa «non ami­che­vole»). Qui si inse­ri­sce anche la vicenda — improv­vi­sa­mente diven­tata per il governo urgen­tis­sima — della riforma della gover­nance della tv pub­blica annun­ciata da Renzi, che appunto non ha escluso un decreto (ma il Qui­ri­nale avrebbe con­si­gliato pru­denza). Nel cda di viale Maz­zini sie­dono anche ber­lu­sco­niani di stretta osser­vanza come Anto­nio Verro, quello che tra l’altro avrebbe inviato al Cava­liere un fax sui pro­grammi sgra­diti da addo­me­sti­care, e Anto­nio Pilati, noto come l’ispiratore della legge Gasparri. Il con­flitto d’interessi non è certo una novità delle ultime ore, ma insomma la fac­cenda si fa parec­chio grossa pro­prio men­tre Ber­lu­sconi viene descritto come un pover uomo alle corde (ma Finin­vest appena l’altra set­ti­mana ha ven­duto quasi 400 milioni di azioni Media­set, pro­prio per avviare altre ope­ra­zioni). E ancora, è neces­sa­rio che l’antitrust, che ha rice­vuto la noti­fica, dia il via libera. E il mini­stero dello svi­luppo deve auto­riz­zare la Rai a con­ti­nuare ad ope­rare con la nuova società.
Al momento, il governo si limita a ricor­dare l’esistenza del decreto della pre­si­denza del con­si­glio sull’opportunità di man­te­nere pub­blico almeno il 51% delle torrri di tra­smis­sione Rai. A borse chiuse (in una gior­nata che vede Rai­Way bal­zare del 9,4% a 4,05 euro verso i 4,5 al quale viene valo­riz­zata nell’offerta, con un +52% dal prezzo della quo­ta­zione, e Ei Towers chiude a +5,2%), il governo sforna la nota. Nella quale comun­que si sot­to­li­nea che «l’offerta pub­blica per Rai Way con­ferma l’apprezzamento da parte del mer­cato della scelta com­piuta a suo tempo di valo­riz­zare la società facen­dola uscire dall’immobilismo nel quale era con­fi­nata. La quo­ta­zione in Borsa si è rive­lata un suc­cesso», insomma.

Prima della nota serale con la quale il governo prova a cal­mare un po’ le acque di fronte alle pro­te­ste, il Pd ren­ziano era stato a dir poco abbot­to­nato, a parte Michele Anzaldi, della vigi­lanza Rai, che anche lui ricor­dava: «La quo­ta­zione in borsa è stata vin­co­lata alla ces­sione di una quota non supe­riore al 49%» e dun­que chie­deva all’Antitrust di valu­tare la vicenda (come ovvia­mente deve fare e sta facendo). Men­tre il gio­vane turco Fran­ce­sco Ver­ducci sot­to­li­neava il primo effetto dell’annuncio: i con­si­stenti gua­da­gni in borsa.
I for­zi­sti si sbrac­ciano invece per­ché l’operazione vada in porto in nome del «libero mer­cato» del Cav. Tor­nano invece a denun­ciare il «patto del Naza­reno tele­vi­sivo» i 5 Stelle e così Arturo Scotto, di Sel: «Non vor­remmo che quel patto del Naza­reno uscito dalla porta rien­trasse dalla finestra».

Micaela Bongi

Fonte: Il Manifesto

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Il duopolio televisivo Rai-Mediaset, che ha caratterizzato per alcuni decenni il mercato italiano, sta giungendo al capolinea. Secondo l’ultimo bilancio dell’emittente pubblica, nel 2013 la quota di mercato detenuta dalle 78 televisioni private operanti nel nostro paese ha raggiunto il 29%, una quota ormai prossima a quella di Mediaset (32,4%). La quota delle altre televisioni, tra le quali spiccano i gruppi Sky, Cairo-La7 e Discovery che insieme detengono il 16% del mercato, cresce ininterrotta da almeno 12 anni. Seppur in misura meno pronunciato, lo stesso andamento ha caratterizzato gli ascolti nelle ore di punta.

Il declino dei due principali gruppi si è riflesso nell’andamento della raccolta pubblicitaria, pure pesantemente influenzato dalla crisi economica. Per la Rai, l’introito per pubblicità è diminuito del 45% dal 2007, attestandosi nell’ultimo esercizio a soli 682 milioni di euro; nell’ultimo anno la quota di incassi proveniente dalla pubblicità è stata inferiore al 30% dei ricavi totali (era circa il 50% nel 2000). Per Mediaset il calo della raccolta pubblicitaria si è attestato al 25% nell’ultimo biennio; nel 2013 la riduzione è stata persino superiore a quella della Rai (negli anni precedenti Mediaset aveva sempre acquisito crescenti quote di mercato a scapito del concorrente pubblico).

Contemporaneamente al calo della raccolta pubblicitaria, la redditività e la situazione patrimoniale dei due gruppi è progressivamente peggiorata. Il conto economico della Rai ha chiuso in perdita in sei degli ultimi otto bilanci e nel 2012 il deficit ha quasi raggiunto i 250 milioni di euro; nel 2011 e 2013 l’emittente pubblica ha registrato un sostanziale pareggio, sebbene la situazione patrimoniale e finanziaria abbia continuato a peggiorare; alla fine dello scorso anno i debiti finanziari sopravanzavano di quasi il 50% il patrimonio netto.

Per la prima volta nella sua storia Mediaset ha chiuso con una perdita 287 milioni di euro l’esercizio 2012; nell’ultimo anno il bilancio ha registrato un sostanziale pareggio grazie ad un forte contenimento dei costi operativi; il peggioramento della situazione patrimoniale prosegue da alcuni anni anche per gli esiti di alcune improvvide operazioni di espansione (in primo luogo Endemol, ma anche Digital+ e digitale terrestre).

In una situazione in cui gli introiti pubblicitari tendono a calare sia per la cattiva situazione economica del paese sia per il declino dello share , le attese reddituali e finanziarie di entrambi i gruppi sono strettamente legate al controllo dei costi. Sulle prospettive della Rai incide anche il prelievo di 150 milioni dal canone televisivo introdotto dal governo Renzi per finanziare parzialmente gli 80 euro in busta paga.

Nell’attuale debolezza, entrambi i gruppi hanno avuto un forte interesse alla riforma del canone per le frequenze televisive approvata il 30 settembre dall’Autority per le comunicazioni (Agcom) con la concessione di un consistente sconto nei versamenti all’erario. Secondo il Presidente della commissione di vigilanza Rai, Roberto Fico (Cinque stelle) “nel 2014 lo Stato andrebbe a raccogliere quasi 40 milioni di euro in meno rispetto al 2013. Questo perché le emittenti non verserebbero più l’1% del fatturato, ma le società controllate che gestiscono gli impianti di trasmissione pagherebbero un canone di meno di 10 milioni”.

La decisione dell’Agcom di rimodulare il canone per le frequenze appare da un lato schizofrenica nel confronti della Rai (lo Stato ha prima prelevato 150 milioni, ma poi ne ha restituiti una parte), dall’altro potenzialmente distorsiva della concorrenza, come anche sottolineato nel giudizio negativo della Commissione europea. La riforma sostituisce infatti l’attuale meccanismo proporzionale di calcolo del canone con uno regressivo che avvantaggia gli operatori di maggiore dimensione in crisi di audience a scapito di quelli più dinamici.

Anche gli effetti sulla finanza pubblica non sono del tutto trascurabili; il risparmio concesso agli azionisti di Mediaset corrisponde al versamento mensile di 80 euro ad una platea di circa 10.000 persone. Anche questa vicenda mette in evidenza come nel settore televisivo gli interessi particolari continuino a prevalere su quelli generali che dovrebbero essere assicurati dallo stato.

Per evitare distorsioni di mercato e tutelare l’interesse generale il governo avrebbe dovuto avere una strategia di sviluppo del settore, che tenesse anche conto di come l’innovazione tecnologica cambia le caratteristiche del mercato sia dal lato della domanda che dell’offerta (ad esempio il web sta sovrapponendosi e parzialmente sostituendosi all’offerta televisiva classica). L’obiettivo dovrebbe essere quello di garantire ai cittadini servizi di qualità e la possibilità di ricevere un’informazione completa e veritiera in cui i giudizi siano chiaramente distinti dai fatti. Quello che vediamo ora sui canali Rai-Mediaset è invece un duopolio che assomiglia a un monopolio del Renzismo.

Elena Tulipani

Fonte: Sbilanciamoci

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Da ieri sera martedì 7 gennaio su RAI1 fiction televisiva per un racconto degli anni ’70 in Italia con tre miniserie televisive di due puntate ciascuna riferite a tre città e tre momenti in particolare: Milano ’69-’72, Genova ’74-’76, Torino ’79-’81. Ma al centro del racconto non ci saranno la strage di piazza Fontana per Milano, o l’uccisione di Guido Rossa per Genova, o le lotte operaie per Torino, al centro del racconto saranno rispettivamente l’uccisione del commissario Calabresi, il rapimento del giudice Sossi, la «marcia dei quarantamila».

Attori protagonisti Alessandro Preziosi, Alessio Boni, Emilio Solfrizzi, il quale ammette che la ricostruzione storica sarà da un certo punto di vista, «il punto di vista sarà in parte diverso da quello di Giordana». Un punto di vista dunque, quello della tv pubblica, che non è certo quello dei grandi movimenti sociali di lotta e trasformazione degli anni ’70, gli anni in cui l’Italia ha conosciuto la sua stagione più alta di conquiste democratiche e sociali.

Del resto che il punto di vista sia ben diverso da quello dei movimenti è detto già nel titolo stesso delle serie televisive: se non proprio «Gli anni di piombo» comunque «Gli anni spezzati». Si comincia stasera con l’uccisione del commissario Calabresi. Naturalmente, per loro, si comincia con l’uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi e non con quella, precedente, di Giuseppe Pinelli, l’anarchico ingiustamente accusato e arrestato per la strage di piazza Fontana. La strage di Milano che diede chiaro dal dicembre ’69 il senso reazionario e golpista della risposta di classi dominanti e servizi segreti alle lotte studentesche e operaie dell’autunno caldo.

Comitato antifascista e per la memoria storica di Parma

Sarebbero decine le persone rimaste ferite dopo gli scontri che a Lampedusa hanno coinvolto alcune centinaio di tunisini che stavano manifestando, le forze dell’ordine che li hanno caricati e un gruppo di abitanti di Lampedusa che protestano contro la presenza sull’isola dei migranti. Fino ad ora sono stati medicati nel Poliambulatorio dell’isola due agenti di polizia e un militare della Guardia di Finanza, oltre a una decina di migranti che presentano diverse escoriazioni e contusioni. Per uno di loro, in uno stato di semicoma, il responsabile sanitario, Pietro Bartolo, ha chiesto il trasferimento urgente a Palermo in eliambulanza. “Alle associazioni umanitarie dico: non vi permettete di accusare di razzismo i lampedusani, hanno dato fin troppo. Siamo in guerra, la gente a questo punto ha deciso di farsi giustizia da sola”. Lo dice il sindaco di Lampedusa, Dino De Rubeis, asserragliato nel suo ufficio mentre davanti il municipio ci sono decine di persone che protestano contro i tunisini. E’ quasi caccia ai giornalisti a Lampedusa. Davanti al distributore di benzina dove la polizia in assetto antisommossa ha caricato alcuni tunisini che minacciavano di fare esplodere delle bombole di gas, la gente ha inveito contro i cronisti di ANSA, Adnkronos e l’operatore della Rai, Marco Sacchi. “Andatevene è meglio per voi”, ha urlato con toni minacciosi un gruppo di una trentina di lampedusani. I cronisti sono stati accerchiati e costretti ad andar via. “Non vi vogliamo, sparite”, gridava.

Fonte: Ansa

#antisec. Con questo hashtag è stato battezzato l’attacco, senza precedenti in Italia, portato a termine contro il CNAIPIC (il Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche) e rivendicato congiuntamente da LulzSec ed Anonymous. Con un comunicato che ha il sapore della beffa, i due gruppi hanno dichiarato di aver violato i server di una delle infrastrutture informatiche più sensibili della polizia italiana. Gli hacker protagonisti dell’intrusione affermano di aver in mano 8 GB di documenti riservati che dimostrerebbero il coinvolgimento della task force dei cyber poliziotti in «operazioni illegali con la cooperazione di agenzie di intelligence straniere e varie oligarchie» economiche . Rispetto alle azioni portate avanti negli ultimi mesi (che avevano visto nella quasi totalità dei casi il dispiegamento di attacchi DDOS contro siti istituzionali e di aziende private) si tratta di oggettivamente di un salto di qualità. La prima release dei documenti interni del CNAIPIC – alcuni dei quali risalenti a non più di una settimana fa – ha visto la pubblicazione fino a questo momento di circa 80 megabyte di dati (l’1% del materiale disponibile) facenti riferimento a diversi ambiti attenzionati dall’intelligence italiana. Alcuni documenti appartengono all’Alpha Design & Networking, un’azienda di telecomunicazioni delegata alla gestione di diversi network istituzionali egiziani. Nei file in questione sono riportati decine di nominativi e carte d’identità digitalizzate riconducibili all’azienda. Altri archivi presenti fra quelli rilasciati riguardano invece il crack della Medici Bank ed i rapporti (spiegati attraverso alcuni organigrammi e schemi relazionali) tra la sua fondatrice Sonja Kohn ed il banchiere degli scandali di Wall Street, Bernard Madoff. L’interesse degli investigatori italiani in quest’ambito è probabilmente dovuto al fatto che la Medici Bank fosse una partecipata di Unicredit (nei rapporti inviati al Ministero degli Interni ricorrono più volte i nomi di Profumo e Gnutti). Infine fra i file resi disponibili da Anonymous e LulzSec si trovano documenti interni del CNAIPIC: una ricostruzione cartografica dell’architettura della loro rete nelle sedi romane situate a Tuscolana e Trastevere, rapporti (assai scarni in realtà) sul monitoraggio delle chat di Anonymous e comunicazioni interne inviate “al signor capo della Polizia”. Anonime fonti investigative si sono affrettate a sottolineare “la scarsa rilevanza” dei documenti resi pubblici. Al di la del fatto che questo è ancora tutto da dimostrare, il nocciolo della questione è un altro. Questa prima disclosure dei documenti del CNAIPIC lancia diversi messaggi in altrettante direzioni ed il loro significato non va necessariamente ricercato nel contenuto dei file trafugati. Se anche dai server violati fossero stati sottratti la lista della spesa o il conto della lavanderia degli agenti in servizio, questo non cancellerebbe il fatto che più ha rilevanza in questa vicenda. Ovvero che i sistemi di difesa di una delle strutture d’eccellenza dell’attività investigativa e d’intelligence nostrana sono stati bucati, sciogliendosi come neve al sole. L’apparato di “specialisti”, che dovrebbe cooperare con Unicredit, Consob, Ferrovie dello Stato, ANSA, RAI, Vodafone, Telecom e altre infrastrutture critiche italiane per garantirne la sicurezza, è stato semplicemente ridicolizzato. Inoltre proprio il CNAIPIC poche settimane fa aveva svolto un ruolo fondamentale nell’operazione repressiva che aveva portato all’arresto di 3 persone accusate di far parte del network degli anonimi. Il Viminale a mezzo stampa aveva battuto la gran cassa della decapitazione di Anonymous Italia. Se già allora non pochi avevano adombrato sospetti sull’efficacia del blitz portato a termine dalle forze dell’ordine, oggi il campo è stato spazzato da qualsiasi dubbio. Anonymous è più vivo che mai e l’ha dimostrato alzando la posta in gioco. Dall’alto profilo tecnico, l’operazione #antisec sembra essere stata predisposta con cura anche sotto quello mediatico. Non appena sono stati diramati il comunicato ed il video di rivendicazione dell’accaduto, Repubblica ha tempestivamente concesso alla notizia uno spazio in prima pagina per tutto il pomeriggio e la serata di ieri. Tutto fa pensare ad un’esclusiva concessa al quotidiano del gruppo Espresso in cambio di una maggiore visibilità. Inoltre è stato approntato anche una canale di chat sicuro all’interno del quale sono state rilasciate dichiarazioni ed interviste ai giornalisti interessati. Sempre su questo fronte va però registrato il silenzio assordante delle agenzie stampa Ansa e ADNKronos che durante tutta la giornata non hanno neppure fatto menzione dell’avvenimento. Un silenzio che fa il paio con quello istituzionale e che sembra essere indice della gravità dell’attacco portato a termine da Anonymous e LulzSec. Se la violazione del perimetro informatico del CNAPIC e la sottrazione dei documenti interni fosse stata una bufala, sarebbe stato lecito aspettarsi un’immediata e secca smentita pubblica da parte dei dirigenti della postale. Non certo balbettanti voci di corridoio sull’irrilevanza dei documenti pubblicati.

InfoFreeFlow

Fonte: www.infoaut.org

“Fuori i partiti dalla Rai”, “riprendiamoci la Rai”, “un bene comune quale è il servizio pubblico radiotelevisivo non può essere tenuto a un guinzaglio che si accorcia sempre più e che è nelle mani del potere politico…”. Sono questi gli slogan con cui l’associazione Articolo 21 e alcuni parlamentari del centro sinistra stanno lanciando in questi giorni una proposta di legge contro l’ingerenza partitica in Rai. Proposta di legge che consentirebbe “all’utente, al momento di pagare il canone, di indicare sul bollettino di conto corrente postale un nome come componente del Consiglio degli utenti e una preferenza, in positivo e un’altra in negativo, sui programmi. I cinquanta nomi più votati, in una sorta di grandi primarie, potranno essere i grandi elettori per scegliere, una volta ogni tre anni, al loro interno o fuori di loro, gli organi di governo della Rai. Ogni anno, invece, le indicazioni editoriali potranno essere considerate dall’azienda come base per impostare i palinsesti”.
Sono slogan e proposte di grande impatto mediatico e di apparente efficacia ma a mio parere di grandissima pericolosità, anche e tanto più perché vengono da associazioni importanti e con le quali abbiamo condiviso tante battaglie. Sarebbe fin troppo facile obiettare che nessuna legge prevede l’ingerenza “partitica” sulle nomine, sulle assunzioni, sui programmi, sugli appalti (e su tutto il resto) del servizio pubblico radiotelevisivo e che tutti quei partiti che presentano proposte per evitare questa ingerenza sono esattamente quelli che hanno occupato e occupano di fatto la Rai, a volte quasi militarmente. Potrebbero non “ingerire”, appunto, e il problema sarebbe risolto. E sarebbe fin troppo facile rispondere che nessuno di quei giornalisti che dallo schermo si battono per la loro libertà si è mai posto il problema della libertà e del diritto di milioni di cittadini ad essere informati sulle posizioni di forze politiche forse oggi non presenti in Parlamento ma certamente nella società e nelle istituzioni locali. Ma il discorso è ovviamente più serio. E riguarda temi generali così come le proposte concrete. Innanzitutto il tentativo di cavalcare l’antipolitica diffusa e di dare ancora una volta risposte populistiche e demagogiche, senza cogliere invece quella grande voglia di politica “grande” che emerge dalla partecipazione di tantissimi giovani alla campagna elettorale e a quella referendaria. Ed è una apparente contraddizione il fatto che il centro sinistra affidi la soluzione di tutti i problemi della Rai in un testo di legge ad un amministratore unico “padrone assoluto” dell’azienda pubblica, e in un altro testo di legge (quello di Articolo 21) al cittadino-utente: concentrazione dei poteri reali in poche mani e falsa partecipazione dall’altra. È la strada per abolire definitivamente il ruolo dei partiti e del Parlamento stesso? Il compito responsabile – e difficilissimo – di chi crede nella politica e nei partiti come strumenti insostituibili per cambiare la società è oggi invece quello di porre al centro dell’azione politica, insieme alla ricostruzione di un tessuto di partecipazione reale e alla democratizzazione degli spazi pubblici, la questione morale.
Nel merito della proposta. Innanzitutto va chiarito che non è la Rai ad essere un bene comune ma bene comune sono la cultura, la comunicazione e l’informazione. La Rai è una azienda concessionaria di un servizio pubblico e il ragionamento deve ripartire proprio da qui, dal suo ruolo, dalla sua organizzazione, dalla sua struttura. È vero, come dice il segretario dell’Usigrai, che con i referendum soffia un vento nuovo. Ma questo vento ci dice di una richiesta di sottrarre alla logica di mercato tutto ciò che è appunto “bene comune”: dall’acqua, al sapere, alla cultura, all’informazione. Quel vento di dice di una richiesta forte di partecipazione e di democratizzazione di tutte le istituzioni. E indicare su un bollettino di conto corrente il programma preferito e un nome per un fantomatico consiglio degli utenti non è certo strumento di partecipazione reale e segnale di democratizzazione di un’azienda pubblica. In queste “grandi primarie” chi si candida e come? Oltre a Santoro e a tutti coloro che possono usare a proprio piacimento i microfoni delle televisioni nazionali chi altri potrebbe illustrare il proprio (personale?) programma per il consiglio di amministrazione della Rai? E il ruolo di un “servizio pubblico” è quello di organizzare la propria offerta culturale sulla base di un “auditel referendario”? Cioè del mercato? Ma non avevamo sempre combattuto la deriva mercantile dell’offerta culturale della Rai? E l’offerta culturale di anni e anni ha qualcosa a che vedere o no con la formazione del gusto, del senso comune, e quindi con la domanda culturale? Quel vento dei referendum ci dice invece che è possibile ricostruire un grande movimento riformatore “dal basso”, come fu quello che a metà degli anni 70 portò alla democratizzazione della Rai. Una legge, quella del 1975, che consentì per esempio – è forse utile ricordarlo a chi ha memoria corta – di mandare in prima serata sulla prima rete televisiva il processo di Catanzaro o a reti unificate una trasmissione proposta dall’associazione degli autori cinematografici sulla strage di Sabra e Shatila o programmi come “Processo per stupro” o “Cronache”. Una riforma che cominciare dalla “Rai dei professori” è stata meticolosamente e pazientemente e tenacemente distrutta fino ad arrivare alla deriva di oggi. E allora è il momento di rimettersi intorno a un tavolo insieme all’associazionismo e ai movimenti sociali e culturali per ridiscutere il ruolo di un servizio pubblico radiotelevisivo all’altezza delle sfide tecnologiche di oggi e di domani. Per elaborare un grande progetto culturale che riporti la Rai ad essere volano di tutta l’industria culturale del nostro paese, un’azienda democratica, decentrata e partecipata che possa ridare vita a tutta la produzione indipendente diffusa su tutto il territorio nazionale, pluralistica nella sua offerta culturale complessiva nel rispetto dei tanti “pubblici”, sganciata dalle logiche di mercato superando l’aberrante distinzione tra programmi “di servizio” e programmi commerciali. Su un progetto alto e condiviso non sarà difficile trovare forme e competenze per metterlo in atto. I nomi verranno poi.

Stefania Brai

http://www.controlacrisi.org

Finalmente la Commissione di Vigilanza Rai si è decisa ad approvare il Regolamento sulla par condicio nella campagna referendaria. “Un atto dovuto e indecentemente rinviato fino ad oggi per ridurre al minimo i tempi della campagna referendaria – commenta il Comitato Promotore 2 Sì per l’Acqua Bene Comune –. L’approvazione del regolamento è una vittoria dei comitati referendari che avevano organizzato un lungo sit-in sotto la sede della Commissione. Adesso ci aspettiamo di vedere in Rai gli spot sui referendum e, nel più breve tempo possibile, gli spazi autogestiti e le tribune referendarie. La mobilitazione continua e oggi siamo sotto Montecitorio, dove il popolo dell’acqua dice a chiare lettere che non sarà accettato nessun tentativo di scippo dei referendum. Avanti così, una vittoria dopo l’altra fino a quella del 12 e 13 giugno”.