La guerra è dichiarata

Pubblicato: 17 novembre 2015 in Notizie e politica, Riflessioni, Senza categoria
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GLOBAL PROJECT – Gli attacchi omicidi avvenuti nella notte di venerdì 13 novembre sono stati organizzati da cellule, interne al territorio europeo, delle formazioni armate islamiche per colpire i governi dei Paesi che intervengono militarmente nelle regioni investite dal conflitto che coinvolge la Siria, l’Iraq, l’Iran, la Turchia e il Libano. La cronaca di quella che si può definire una guerra urbana diffusa parla di decine di morti e feriti. Certo il numero degli zeri cambia rispetto alle città del lontano Medio Oriente, ma questi numeri parigini indicano il livello militare della guerra che l’Europa, la Francia, ha saputo esportare e poi importare in questi ultimi anni.

Per quanto si potrà sapere dalle ormai infinite indagini sul campo di battaglia, dentro ed oltre i maledetti confini geografici e politici europei, l’intero percorso che porta agli attentati rivendicati dall’esercito islamico sembra indicare chiaramente che la loro organizzazione si sviluppa in Europa come avviene nei paesi nordafricani, arabi e in quelli mediorientali. I campi di addestramento che da qualche decennio accolgono migliaia di persone provenienti dai paesi occidentali in realtà, oggi, servono più a combattere nelle metropoli europee che nelle zone di guerra. Campi di addestramento ideologico sono anche le carceri europee, come l’insieme, seppur differenziato, delle aree urbane e popolari dove si cresce e si vive senza alcuna prospettiva di affermazione sociale a partire dal quartiere, dalla scuola, dalla formazione professionale. Non ci stupiamo, infatti, che la prima identità a cui si è risaliti di un attentatore sia appartenente ad un residente delle banlieue francesi; allo stesso modo, i due belgi arrestati provengono da un quartiere popolare di Molenbeek.

Nessun piano a lungo termine o provvedimento sono riusciti a frenare la progressiva integrazione di un’ampia fascia di giovani, uomini e donne, ai movimenti politici di stampo religioso: non ci sono riusciti i miliardi spesi nella riqualificazione escludente dei quartieri ‘sensibili’ come quella dei centri storici popolari nelle città francesi, non ci sono riusciti i numerosi piani di riforma territoriale, e di programmi che promuovono la “mixité” etnica che, in Francia, corrisponde ad una vera e propria geografia sociale, non ci sono riusciti i decreti che difendono la “laicità”, neanche gli interventi che investono dall’alto la progettazione politica locale. Allora è arrivato il momento, anche se forse è tardi, di fare guerra all’assimilazione dell’islam al terrorismo. Bisogna impedire che ci creino le condizioni di possibilità perché il consenso attorno ad un progetto totalitario, autoritario e terroristico cresca sempre di più.

Il brutale risveglio questa volta coinvolge direttamente, come nel caso di tutti gli attentati, dall’attacco in una scuola confessionale eseguito da Merah, all’assalto al TGV, così come due giorni dopo la carneficina nella redazione di “Charlie” , con la strage nel supermercato ebraico a Vincennes.  E come in passato a Parigi. I cittadini, gli abitanti, i passanti, i conoscenti sono toccati. Ci sentiamo feriti sempre più vicino, la guerra diventa familiare, come lo possono essere le vittime del terrorismo contemporaneo. Ma anche come lo è la guerra che si scatena contro le jungles a Calais, a qualche centinaio di km da Parigi.

La guerra contro i migranti è la stessa che ci tiene chiusi in casa, che blocca i trasporti pubblici e chiude i musei e le biblioteche, le università e i mercati di Parigi per “sicurezza”. Le manifestazioni previste questo fine settimana per il Kurdistan e con i rifugiati sono state vietate. Il divieto, introdotto dallo stato d’emergenza, è stato dichiarato dalla polizia per un mese. Le autorità prefettizie e le forze dell’ordine tramite il Ministero dell’Interno gestiranno le competenze territoriali insieme al ministero della Difesa. L’esercito è stato mobilitato per assicurare la protezione di luoghi e cittadini. Fino a tutto il giorno di sabato ai cittadini di Parigi veniva intimato di restare in casa e di non muoversi. Una misura di precauzione, certo, che però esaspera questo stato di guerra rendendolo permanente e cerca la soluzione con gli stessi mezzi agli attentati. Il dispositivo di sicurezza messo in atto provoca l’effetto che vogliono generare gli attentatori: paura, chiusura, e attraverso questa polarizzazione della società. Divisione immediata tra amici e nemici lungo una linea che interseca soprattutto la provenienza etnica ma anche l’estrazione sociale. La paura genera identità ermetiche, crea delle appartenenze nazionali all’interno di uno stesso territorio. L’unità sociale non è data dalla cooperazione tra le differenze che abbatte le frontiere interne per generare coabitazione e benessere, bensì un sentimento verso lo Stato che rischia di dimenticare tutte le responsabilità politiche delle élites al comando, quelle che adesso vorrebbero proteggere la cittadinanza quando per anni non hanno fatto altro che creare divisioni. Per questo lo stato di guerra aperta non va visto soltanto nelle sue manifestazioni più violente che riportano l’Europa direttamente sui campi bellici oltre le nostre porte. La guerra simulata è quotidiana, agisce in maniera molecolare, crea quei confini interni per cui molti continuano ad essere percepiti come invasori, nemici, un altro da sé che non può e non potrà mai godere dei diritti di cittadinanza: i profughi, i migranti economici, coloro che non sono contemplati interamente dalla previdenza sociale. In tutto il loro parassitismo politico opportunista, è proprio ciò che stanno cercando di fare le destre europee, senza guardare in faccia alle reazioni umane e alle tragedie che si sono consumate. Prima fra tutte a non distinguersi da questa tendenza la Lega Nord di Salvini.

Non vogliamo cadere in facili sociologismi della povertà, sebbene la composizione delle banlieue e degli esclusi non possa essere tenuta a parte dall’analisi degli attentati: non è un caso per la terza volta consecutiva questi siano accaduti in Francia. E’ vero che il terrorismo islamico affascina e coinvolge individui la cui situazione economica e sociale non è riconducibile alla povertà materiale. Ma la povertà non è mai soltanto questione di indigenza, è una posizione che si situa in un campo economico, simbolico e culturale. Il dominio coloniale e, successivamente, quello post-coloniale che si è generato dentro le città francesi è sempre stato trasversale alle classi sociali, la sua matrice è etnica.

La guerra stessa non è del resto uno stato trasversale che investe l’intero corpo sociale? Questa condizione, come ricordano tutti i filosofi che hanno trovato le fondamenta concettuali dello Stato moderno in antitesi alla guerra, ha proprio la capacità di annullare le differenze per compattare i singoli in popoli, contrapposti tra loro. E tale dinamica assieme politica e psicologica ha continuato ad esistere anche dopo il declino degli Stati nazioni o delle grandi guerre in seno all’Europa, a causa degli interventi bellici coloniali e imperialistici, nonché internamente all’Impero globale negli ultimi quindici anni, come ha dimostrato la strategia statunitense dopo le Twin Towers. Cosa ci aspetta in quell’Europa che aveva dimenticato, da tempo, la guerra, relegandola a questione estere?

Qualsiasi ragionamento e discorso sulla necessità di un’Europa federale a seguito di questi fatti è ipocrita e falsa completamente l’importanza di questo tipo di assetto politico del nostro continente. Se la base di costruzione trova radici ideologiche e politiche sull’accentramento dei poteri e un dispositivo transnazionale securitario-militare, si accentuerebbe ancora di più questa polarizzazione. La possibilità di un’Europa democratica, fondata su di un confederalismo tra territori e città autonome, diventerebbe impensabile. La costruzione di uno spazio europeo libero dai confini e dalla religione dell’austerità diventerebbe complicata: accentramento, poteri prefettizi, stato di emergenza permanente andrebbero a legittimare l’ineluttabilità delle politiche che definiscono questa Europa, come unica alternativa esistente alla barbarie dello Stato islamico. Quando basterebbe guardare proprio in Siria, in Rojava, dove la guerra aperta è quotidiana, per capire che un legame sociale fondato sul mutualismo e l’inclusione, l’estensione dei diritti individuali e collettivi, un potere decisionale nelle mani della cittadinanza è l’unica alternativa che abbiamo per uscire da un futuro che presenta in tutta la sua oscurità. Combattere il fascismo della jihad significa avanzare un modello di società che non riproduce in altre forme esclusione e diffidenza diffusa. Significa sapersi difendere rendendolo impossibile.

Perché il nemico che si vorrebbe combattere non è un’entità estranea e straniera, che arriva da fuori, oltre i confini, è interno al corpo sociale europeo che lo ha prodotto e tenuto in vita nel corso degli ultimi quindici-vent’anni. Ci appartiene tanto quanto ci ripugna e ci interroga.

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